Un pò di Storia del Territorio
La zona di Accumoli, non lontana dalla sede che Strabone assegna agli aborigeni, rivela tracce di abitati risalenti al III-II secolo a.C., quando fu aperta la Salaria che ne attraversava il territorio in direzione Piceno, come testimoniano i toponimi Cose (poi sostituito da S. Pancrazio), o Predii Cosani, dove sarebbe stato educato l’imperatore Vespasiano, e Vicus Badies, villaggio nei pressi dell’attuale Fonte del Campo, da dove l’antica consolare proseguiva per Grisciano. Lungo questo percorso sarebbero affiorati resti di epoca romana nei pressi di Arcezzano, di S. Maria delle Camere, Campo Madamo o adama, Spinacceto d’Illica e Camperone.
Gli abitati si infittiscono nel basso medioevo all’epoca dei Longobardi e dei Franchi quando il territorio faceva parte del ducato di Spoleto e della contea di Ascoli. Al periodo longobardo risale Illica, donata a Farfa nel 745 da un certo Grisio, possessore di vasti fondi tra Abruzzo e Umbria. Da lui potrebbe aver preso nome Grisciano. A metà del X secolo (epoca delle incastellazioni), forse già esistevano i centri abitati che ritroviamo espressamente nominati nel 1037, quando l’imperatore Corrado II confermava al vescovo di Ascoli le terre che nel 950 gli aveva donato Maginardo di Sigolfo, titolare della contea picena. Dette terre erano site, tra l’altro, in Ilice cum ecclesia s. Pauli, Grisiano. Cose, Tollegiano, Rapino, Arcezano, Acumulo, Saxa, Guasto Pomarese, Casa Venula, Teracino, Salle, Pernice, Colle de Spada ecc. Le stesse località papa Leono IX confermava ad Ascoli nel 1052. Nella bolla compaiono le corti (curtes = centri agricoli) di Ilica, Cariano (Grisciano), Core (Cose), Api, Terracina, Bapino (Rapino), Guasto Pomarese, Saxa, Salli ecc.
E ancora gli stessi luoghi, compreso Acumulo, ritroviamo nominati nei successivi diplomi imperiali o pontifici del 1056, 1137, 1150, 1185. Con la conquista dei normanni (1149-1156) le terre di Accumoli furono annesse al Regno e sparite tra i feudatari dell’aquilano. Il Catalogus baronum (1150-1168) assegna a Berardo Sinibaldo de Camponeschi i feudi di Podio de Ape, Lavena de Macla (Macchia), Colle de Spada e Cervilla; a Roberto de Guasto il feudo di Guasto e a Gusperto di Suppone, vassallo Rainaldo di Lavareta (oggi Barete, L’Aquila), il feudo di Sallum (Roccasalli).
Nella seconda metà del sec. XII, il destino di Accumoli cambia. Infatti, in un vasto disegno di ristrutturazione e rafforzamento delle terre di confine, per iniziativa dei regnanti e su sollecitazione più o meno espressa delle popolazioni locali, il piccolo villaggio o forse già castello fortificato, non diversamente da altri centri di frontiera, divenne il polo aggregante delle genti sparse nei piccoli abitati dei dintorni (incastellamento). Non ha credito la tradizione locale, comune anche ad altri paesi della zona (Cittaducale, Leonessa), della ribellione dei villaggi ai tiranni che li opprimevano e la conseguente fondazione nel 1211 di una nuova terra (Accumoli per l’appunto) da parte di 32 famiglie patrizie. Probabilmente fu un’invenzione di queste ultime o delle famiglie originarie del luogo per legittimare i propri privilegi e diritti nei confronti dei nuovi acquartierati. La scelta cadde su Accumoli per la sua felice collocazione strategica, posto com’era a guardia dei valichi montani da e per l’Umbria e della Salaria, l’arteria più importante dell’Italia centrale. In seguito all’accentramento, Accumoli fu fortificato con giro di mura lungo poco meno di 3 chilometri, alto o metri e mezzo e largo quasi 2, munito a intervalli regolari, di forti bastioni. Nella cortina si aprivano quattro porte: di s. Pietro a ponente, di s. Nicola (o porta Vecchia) a levante, di s. Leonardo (o porta Pacino) a tramontana e di s. Maria (o porta Pescara) tra mezzogiorno e tramontana. Alle porte corrispondevano all’interno altrettanti quartieri e parrocchie, che irradiano la loro giurisdizione dal centro a quasi tutti i villaggi di provenienza degli acquartierati, tranne che per la parrocchia di s. Pietro cui faceva capo il quarto di Lorenzo, formato unicamente dal nucleo originario aggregante. Per circa cinquant’anni, il nuovo agglomerato urbano, pur tra lotte interne ed aggressioni esterne si resse come libero comune, governato a turno da 8 uomini del quarto di s. Lorenzo (detti anche satrapes) e da un consiglio generale di 148 focolieri. A turbarne lo sviluppo fu dapprima Norcia, bramosa di uno sbocco sulla Salaria. Accumoli fu battuta e ceduta ad Ascoli (1255), che poi l’aiutò a sottomettere la ribelle Roccasalli. Ma quando Ascoli, in cambio di questo aiuto, pretese la sua totale sottomissione, Accumoli preferì darsi agli Angiò (1265), e da questa data potè aggiungere allo stemma cittadino (rastrello o labello a quattro denti e giglio) a corona angioina. Successivamente si schierò con i sovrani di turno ripagata, in cambio, con diritti e privilegi sempre rinnovati. Tra l’altro sarà l’unica terra di questa fascia di confine ad avere un suo rappresentante al parlamento regionale e in seguito del regno. Il XIII e XIV secolo nonostante tutto, furono secoli di prosperità e di crescita. Basti pensare che in questo arco di tempo sorgono in Accumoli due conventi (S. Francesco e S. Agostino) e due monasteri di donne (S.Caterina e S. Nicola), un evento che non si ripeterà più nella sua storia. Furono anche secoli di libertà ed autonomia, durante i quali la comunità elaborò propri statuti. E a quali fieri principi di giustizia furono ispirati ben si comprende dall’interdetto lanciato nel 1427 dal vescovo di Ascoli contro i Magistrati di Accumoli, perché rifiutavano di abrogare talune leggi restrittive dei privilegi ecclesiastici, dei quali alcuni erano stati messi in carcere ed altri alla tortura. Gli stessi secoli ed i seguenti sono punteggiati da accanite e continue lotte di campanile con Norcia, Cascia, Amatrice, Cittareale, Arquata e anche Ascoli. Saccheggi, vendette, devastazioni, e morti ne erano le conseguenze. I motivi sempre gli stessi: questioni di confine o di schieramento su opposti fronti politici o di fazione, ma anche congiure, lotte per la corona, aggressioni di truppe straniere. Ecco in breve i principali fasti e nefasti della sua storia. Negli anni turbolenti di Giovanna I, regina di Napoli (1343-81), Accumoli, favorevole alla sovrana, deve fronteggiare le soldatesche di Lalle Camponeschi, schierato con Luigi d’Ungheria, e contrastare di nuovo le pretese di Norcia sul suo territorio; nel 1424 armati di Accumoli si battono valorosamente alla guerra dell’Aquila contro Braccio di Montone; negli stessi anni partecipa con Ascoli e Amatrice, alla presa e distruzione di Cittareale, di parte angioina. Segue un decennio di tregua, frutto forse, della predicazione di S. Bernardino da Siena, che nel 1427-33 percorreva la valle del Tronto esortando alla pace; al popolo di Accumoli parlò probabilmente dal palazzo del Guasto, che reca ancora il suo monogramma. Si torna quindi alle armi: nel 1436-38 guerra e pace con Cascia, con la quale poi fa fronte comune contro gli sforzeschi, che per vendetta distruggono alcuni villaggi e assediano il capoluogo. Ma presto devono mollare e tornano in Ascoli. Accumoli è salvo, ma non dimentica. E qualche anno dopo (1443), alcuni suoi cittadini tramano di uccidere Giovanni Sforza in Ascoli. Scoperti e catturati, Giacomo Titoloni, il capo della congiura, e i suoi partigiani finiscono squartati sulla pubblica piazza; altri sette compaesani, presenti in città, tra cui un frate e una monaca, impiccati o arsi vivi. Passano due anni e un manipolo di 200 accumolesi (baffuti e feroci montanari come son descritti nelle cronache ascolane), confusi con i pellegrini delle feste agostane, entrano in Ascoli, fanno strage di sforzeschi e tagliano a pezzi Rainaldo Sforza, fratello di Giovanni, autore, quest’ultimo, della strage del ’43. E’ la scintilla della rivolta: Ascoli è libera e torna al papa. Merito anche di quei valorosi montanari. Per queste gesta, Accumoli si ebbe dal re Alfonso la conferma dei privilegi, il condono di alcune pendenze fiscali e la ricostruzione delle mura, rafforzate da postazioni di artiglieria. Negli stessi anni (1443), per superiori ragioni politiche, il sovrano cede Accumoli, con Leonessa e Cittaducale, al ponteficie in cambio del vicariato di Benevento. Ma queste terre non gradiscono il baratto e creano tanti e tali problemi al papa che questi si affretta a restituirli (1447). Nella seconda metà del secolo, stessa situazione. 1460: Accumoli e Ascoli sono sul piede di guerra per un imprecisato fatto di sangue perpetrato dagli ascolani: intervengono i rispettivi sovrani (Ferdinando I Ferrante e Pio II) e , prima che alle armi si giunge alla pace (1461).Quattro anni dopo, le due rivali più Amatrice espugnano Arquata, alleata di Norcia, con la quale Accumoli fa pace nel 1470. Tre anni prima (1467) era giunto in Accumoli e vi si era trattenuto tre giorni il principe ereditario Alfonso, duca di Calabria, accolto con gran giubilo. Nel 1485, durante la congiura dei baroni, gli accumolesi restano fedeli agli Aragona e perciò, sebbene invitti, “sono scarcerati” dagli oriniani “et fattoli mancamento dde robbe, de honor, de danne et de ognaltro mancamento”. Davvero epica, nel secolo successivo, la resistenza opposta alle truppe di Francesco I (1528), re di Francia, sceso d’oltralpe alla conquista del Regno: dopo 8 mesi di assedio, benché stremati dalla fame (fino a cibarsi anche dei topi), gli accumolesi non si arrendono; i francesi, costretti a ripiegare, sfogano la rabbia saccheggiando ed incendiando ville del contado. Subito dopo gli accumolesi, non meno infuriati, si uniscono alle truppe imperiali di Carlo V, già all’attacco di Amatrice e, come riportato da una cronaca del tempo, “li nemici si sbandarono ed i nostri diedero dentro la terra dei nemici con gran gusto e si bandì a foco et a sacco il dì di S. Mattia del 1528”. La capitale degli Orsini fu distrutta e la sua terra divisa in cinque zone di cui tre dovevano essere aggregate al territorio di Accumoli che però rifiutò non volendo alcun connubio con gli amatriciani. All’odiata rivale sarà permesso ricostruire la città, giammai le mura, per il veto degli accumolesi. In compenso Accumoli si ebbe dall’imperatore il titolo di “fedelissima” e la promessa che sarebbe stata sempre “terra demaniale e giammai feudale”. Poi si torna alle scaramucce con i norcini e con altri castelli della zona, con reciproci “devastamenti e rovine”, fino al 1560. Nel 1566 ben settecento accumolesi – a detta del Cappello – corrono in soccorso delle popolazioni rivierasche d’Abruzzo, che con il loro aiuto ricacciano i turchi in mare. Poi di nuovo zuffe con i vicini, zuffe che si ripetono all’infinito (l’ultima con Norcia è del 1744), contribuendo a fiaccare un territorio ormai avviato, con il “generale avvilimento” del viceregno, alla completa decadenza. Fino a quest’epoca Accumoli era stata una terra popolosa e prospera. Lo dimostrano la crescita della popolazione sino al 1561, più che raddoppiata rispetto al secolo precedente, i sontuosi palazzi e le belle chiese che ancora restano. Il suo benessere, si basava principalmente sull’allevamento, su un discreto commercio (principalmente con Roma, Ascoli e Norcia) e su un fiorente artigianato (nasce in questo periodo, sotto il titolo si s. Marcello, la compagnia degli artigiani). Per queste ragioni, pur nel suo piccolo, Accumoli viveva a un buon livello culturale e civile e disponeva di “servizi”, comodità e diciamo pure di agi degni di un centro urbano ben organizzato. Vi erano scuole pubbliche e forme d’insegnamento privato specie di diritto, e non pochi rampolli di buona famiglia proseguivano gli studi nelle università del regno. Non a caso Accumoli sin dal XV secolo godeva fama di paese colto e non pochi suoi figli ricoprivano in varie località ruoli di prestigio. Molti gli esperti nelle armi, quasi il pane quotidiano. Ma i più, come scrive il Cappello, sceglievano la toga o la chiesa. Al discreto tenore intellettuale contribuivano in qualche modo anche i francescani e gli agostiniani, come pure il clero secolare, sempre molto numeroso (nel 1753, su circa 700 ab., vi erano più di 20 preti). Ai malati e ai poveri si interessavano pie confraternite; per loro c’era sempre in funzione qualche ospedale (della Misericordia, di s. Antonio ecc. ) e per i pellegrini e viandanti qualche ospizio. Non meno provvidenziali i numerosi monti frumentari, vere e proprie banche del grano a sollievo dei più poveri, specie nelle male annate.
Il centro era servito da un buon congegnato acquedotto, che alimentava una fontana pubblica e le case signorili (fu devastato dai francesi nel ricordato assedio). Ma c’erano anche gli spassi: per gli uomini la caccia e la pesca (boschi e acque davvero non mancavano), per tutti il tradizionale ballo e soprattutto il “publeco theatro”, istituzione davvero rimarchevole, se si pensa che esisteva già prima del 1545, quando ancora mancava in molte grandi città. A quel teatro gli accumolesi tenevano tanto che, più volte crollato, fu sempre ricostruito ed era ancora in funzione alla metà del secolo scorso. L’ultimo era contiguo alla chiesa della Misericordia. Tra i piaceri dei “comodi accumolesi” il Cappello pone anche la buona tavola, che si sostanziava in non meglio specificati manicaretti e crostate”, come quelli che i devoti offrivano a s. Giuseppe da Leonessa, che predicò ad Accumoli nel 1595, e che il santo passava nascostamente ai poverelli. Il segno della crisi si coglie, con tutta evidenza, nel calo inarrestabile della popolazione: già in diminuzione nel 1571 (si passa da 768 a 750 fuochi), è più che dimezzata nel 1669 (336 fuochi), e ridotta quasi a un terzo nel 1775 quando si contano 269 fuochi meno della metà rispetto a tre secoli prima. Il fenomeno investe tutta la valle. Tasse, vendita di beni demaniali, risse coi confinanti e brigantaggio (con morti, rapine e devastazioni), arruolamenti per combattere su fronti lontani (contro turchi, veneziani e francesi), alloggiamento di truppe, carestie e miserie, spingono molti a sciamare verso la campagna romana, complice anche un certo irrigidimento dl clima sul finire del XVI secolo. Sloggiano per primi gli abitanti dell’alta montagna: sul finire del secolo partono per l’agro romano, prete in testa, circa 500 persone da Poggio d’Api e dei casali intorno. Si aggiungano i terremoti (disastrosi quelli del 1627, 1703 3 1730) e l’infeudazione del territorio alla famiglia Medici (1643), un provvedimento, questo, che ferì a morte l’orgoglio residuo e la fierezza degli accumolesi. Unico dato positivo del periodo è la fondazione del Monte di Pietà (1635) ad opera del patrizio Pomponio Pasqualoni. Si possono aggiungere il ritorno di Accumoli alla corona di Napoli (1736), il fatto che viene dichiarata città e alcune coraggiose riforme del re Carlo VII. Ma i benefici veri per queste terre non furono rilevanti. Ciononostante, Accumoli, come era nel suo stile, rimane fedele ai regnanti anche negli atti turbinosi di fine secolo, quando con Amatrice si oppone alle truppe francesi e molti delle ville, congregati a Fonte del Campo (26 sett. 1799) ed eletto loro capo Domenico Adduci di San Giovanni, si uniscono alle masse di Salomone per liberare l’aquilano. Tuttavia non mancò una piccola fronda giacobina: sei accumolesi, infatti, figurano nella lista borbonica dei “rei di stato”; tra essi il sacerdote Emidio Ricci e Benedetto Tommasi, zio del più famoso Salvatore. Nel periodo napoleonico (1806-1815) il territorio è infestato da bande di briganti. Una era comandata da Carlo di Ludovico, detto Carpaccio, di Fonte del Campo. Intanto si diffondeva in tutta la vallata la carboneria e anche Accumoli nel 1820 aveva la sua “vendita” (associazione). Contemporaneamente cresceva il consenso alle idee risorgimentali, e non pochi accumolesi diedero il loro contributo per l’unità nazionale. Il più insigne patriota originario del luogo fu Salvatore Tommasi che, nel 1860, consegnò a Vittorio Emanuele, fermo ad Ancona, le richieste di adesione alla corona d’Italia delle municipalità della regione Abruzzo consentendogli così di passare il Tronto e proseguire verso Napoli.